MORANO CALABRO
MORANO CALABRO
La sua posizione strategica nell’alta valle del fiume Coscile (antico Sybaris di epoca magno-greca) alle pendici del massiccio del Pollino, ha contribuito al suo sviluppo in epoca antica ed al suo splendore nei periodi medievale e rinascimentale, in particolare sotto la signoria dei Sanseverino di Bisignano.
Dal 2003 fa parte del circuito dei “I borghi più belli d’Italia”, “Bandiera Arancione” del Touring Club Italiano, il suo nome è stato inserito nella lista delle destinazioni europee del Progetto EDEN della Commissione europea.
Oggi è uno dei principali centri del Parco nazionale del Pollino.
Sull’origine del nome del borgo non si hanno precise testimonianze storiche, si sono invece ipotizzate incerte e contrastanti teorie. Fra le tante congetture, vi è ad esempio l’erronea supposizione che Morano derivi dal fatto che sia stato fondato o abitato dai mori: tesi inverosimile, dato che il toponimo è già attestato nel II secolo a.C. Analoghe teorie volevano che derivasse dalla coltivazione dei gelsi moriche abbondano nell’agro circostante, ma anche in questo caso vengono considerate scorrette, visto che tali coltivazioni sono state impiantate posteriormente all’epoca romana.
Secondo la tesi dello storico Gaetano Scorza, secondo il quale Morano avrebbe origini più remote a quelle documentate, plausibilmente magno-greche, è possibile ritenere che il suo nome derivi dal verbo greco μερυω, cioè “raccogliere insieme, cumulare”, con riferimento alla singolare struttura urbana, dove gli edifici paiono essere gli uni attaccati agli altri. Anche quest’ultima tesi però non persuade del tutto, visto che il borgo ha assunto questo assetto nelle forme e nelle proporzioni attuali solo progressivamente e nel corso dei successivi secoli. Da ultimo, lo scrittore Vincenzo Padula nella Protogea del 1871, ipotizza che il toponimo Morano derivi dall’ebraico Mòren adoperato nel Talmud con il significato di castello, il che proverebbe la fondazione di un fortilizio contemporaneamente allo svilupparsi della città.
Dunque il Muranum latino, pone chiara luce sulla sua fondazione romana e riapre la questione sull’origine del nome, giustificando un’ipotesi più verosimile ma non provata da documenti storici. Poiché il suffisso latino – anum indica solitamente vasti fondi e proprietà di una famiglia importante della zona, è probabile che nel nostro caso si tratterebbe di un antroponimo, derivante di Murus o Murrus.
L’appellativo Calabro venne aggiunto in epoca post-unitaria con un decreto di Vittorio Emanuele II del giugno 1863, per distinguerlo da Morano sul Po.
Chiesa arcipretale dei Santi Pietro e Paolo
Sorge sulla sommità dell’abitato nei pressi del Castello. La sua fondazione si fa risalire intorno all’anno mille (probabilmente al 1007), sebbene abbiano inciso sulla sua architettura interventi di epoche successive, dai quali però pare esser stato escluso il campanile in pianta quadrangolare, costruito in epoca medievale e in posizione evidentemente arretrata rispetto alla chiesa, che rispetto al resto del complesso conserva meglio le forme originarie. La facciata è essenziale nella sua struttura a capanna con le falde laterali ribassate e sormontata nel timpano da una nicchia con la statua di San Pietro risalente al periodo angioino. L’interno in tre navate a pianta basilicale è decorato da delicati stucchi in stile rococò (seconda metà del secolo XVIII).
Pregevoli opere d’arte vi sono custodite, la cui datazione va dal XV secolo ai primi decenni dell”800. Al XV secolo appartengono un sarcofago in bassorilievo appartenente alla famiglia Fasanella (feudatari del borgo fino alla prima metà del ‘400), un affresco raffigurante la Vergine delle Grazie e proveniente dall’omonima cappella extra moenia e una Croce Processionale in argento di Antonello de Saxonia del 1445. Risalgono al XVI secolo quattro statue in marmo di Carrara eseguite da Pietro Bernini, padre di Gian Lorenzo, scultore toscano attivo in Napoli fra la seconda metà del ‘500 e la prima metà del ‘600. Esse ritraggono Santa Caterina d’Alessandria e Santa Lucia, San Pietro e San Paolo. Sono del medesimo periodo altre opere: la Candelora, statua appartenente probabilmente alla bottega di Giovan Pietro Cerchiaro, un San Carlo Borromeo di Ignoto di scuola napoletana (1654) posto su un ricco altare in marmi policromi, un Compianto sul Cristo morto e due tele raffiguranti i Santi Pietro e Paolodel Pomarancio, anticamente formanti un trittico appositamente commissionato dall’ Università di Morano per la congregazione di Santa Maria della Pietà. Importante è la presenza di due pale d’altare del seicento: l’adorazione dei pastori e la Madonna in trono col Bambinello e quattro Santi, attribuite al calabrese Giovan Battista Colimodio (1666). Della seconda metà del XVIII secolo è il Coro realizzato fra il 1792 e il 1805, capolavoro di Mario ed Agostino Fusco.
Ubicato sul lato sinistro della balaustra, vi è un pregevole organo portatile del XVIII secolo.
Collegiata di Santa Maria Maddalena
L’antico nucleo della Collegiata sorgeva al di fuori della cinta muraria medievale come piccola cappella suburbana (1097). Visti i limiti architettonici della struttura e per il cresciuto numero di fedeli, venne ampliata in pianta a croce latina a tre navate per volere del prevosto don Giuseppe La Pilosella nella seconda metà del XVI secolo. Più volte rimaneggiata fino alla prima metà del XVIII secolo, assunse il titolo di collegiata il 3 febbraio 1737 con bolla di papa Clemente XII. Nel 1732 cominciarono ulteriori restauri, nel corso dei quali decorazioni tardo barocche, commissionate a Donato Sarnicola, conferirono all’interno un aspetto maestoso, da far ritenere che essa sia uno degli esempi più alti del barocco calabrese. Il campanile (1817) e la cupola (1794) furono rivestiti di caratteristiche maioliche in stile campano di colore giallo e verde nel 1862.
La facciata, fu completata negli anni ’40 del XIX secolo in stile neoclassico. Ripartita in due livelli divisi da una cornice marcapiano costituita da triglifi e metope con simbologie classicheggianti, il livello inferiore è suddiviso da sei paraste doriche, il livello superiore, retto da quattro paraste ioniche contornate negli spazi da ghirlande, si innalza recando sul frontone l’arme della famiglia Spinelli di Scalea.
Oggi l’edificio conserva la pianta originaria in croce latina, con nelle navate laterali, cinque cappelle per lato divise in campate sormontate da piccole cupole, mentre la navata centrale ha volta a botte su cui si affacciano dieci finestre.
Appartengono alla scuola di Pietro Bernini un ciborio e due angeli orantiposti alle estremità dell’altare maggiore, mentre è del celebre scultore del rinascimento meridionale Antonello Gagini la Madonna degli Angioli (1505) proveniente dal monastero di San Bernardino e posta su un altare del transetto destro. Sono presenti alcune pale d’altare di scuola napoletana del Settecento.
Fra gli autori e le opere di maggior riguardo ricordiamo quelle di F. Lopez: L’immacolata (1747), L’Addolorata, San Giovanni Battista (1748); dell’artista/famiglia Sarnelli le opere: Miracolo di San Francesco di Sales (1747), L’incla oronazione della Vergine (1747) e la Madonna del Rosario; Giuseppe Tomajoli lascia invece come opera il Morte di San Giuseppe (1742) e un San Giovannino dello stesso periodo; ed infine, del pittore moranese Lo Tufo troviamo, La Vergine fra i santi Silvestro e Giovanni Battista (1763) e Le anime del Purgatorio. Fra le opere lignee, sono assai pregevoli il coro (1792), il pulpito ed alcuni stipi sacri realizzati fra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento da Mario ed Agostino Fusco. Sul fondo dell’abside, proveniente dal monastero di Colloreto troviamo un fastigio in marmi policromi dei primi del secolo XVII adornato dalle statue di Sant’Agostino e Santa Monica con al centro Maria Maddalena orante, attribuita a Cosimo Fanzago o al Naccherino.
Chiesa di San Nicola di Bari
Si trova nel cuore del centro storico e si mostra ai piedi del colle dove sorge il borgo solo sul suo fianco destro. L’ingresso, fra i vicoli del quartiere Giudea, si apre sulla piazzatta da cui prende il nome, nei pressi della più antica fontana moranese e dell’antico seggio cittadino dell’Universitas che di questa chiesa aveva il patronato. La facciata è semplice, con un portale a sesto acuto con archivolto in muratura sul quale si trova rappresentato un affresco raffigurante San Nicola.
La chiesa si sviluppa su due piani sovrapposti, di cui uno è la cripta. Questa, dedicata a Santa Maria delle Grazie, risale all’epoca altomedievale, ed è considerata fra le costruzioni più antiche del paese. Fra le opere d’arte custodite si annoverano, un giudizio universale in olio su tela di Angelo Galtieri (1737), alcune statue lignee e tele del Seicento e nella sagrestia, un Espositorio in argento fuso sbalzato e cesellato del XVIII secolo, corone di santi della seconda metà del secolo XVIII e del terzo decennio del XIX secolo, calici in argento fuso del XVII secolo, un reliquiario del XVI secolo ed una piccola scultura in alabastro dorato del secolo XVI raffigurante la Madonna del Buon Consiglio.
Il piano superiore, una navata unica, è stato edificato negli anni intorno al 1450, ma venne rimaneggiato in epoca barocca.
Fra le opere d’arte, meritano particolare attenzione un dipinto di Pedro Torres del 1598, Madonna tra Santa Lucia e Santa Caterina d’Alessandria, un crocifisso ligneo di Ignoto del secolo XVI, uno splendido confessionale del Frunzi (1795), una Annunciazione del 1735 di Angelo Galtieri, altre pale d’altare coeve ed un coro di Agostino Fusco del 1779.
Convento dei Padri Cappuccini
Costruito fra il 1590 ed il 1606, il monastero dei Cappuccini è una struttura semplice ed essenziale, come nello stile francescano. La presenza dei frati minori si fa risalire già al 1598; in questi anni infatti venne ceduto il fondo su cui sorge il complesso dal notabile Giovan Maria Rizzo per tramite del canonico moranese Don Ambrogio Cozza che, col sostegno dalla popolazione, si attivò per la sua edificazione, sospinto dall’intima devozione verso San Francesco per una grazia ricevuta in sua intercessione. Soppresso in epoca napoleonica il 7 agosto 1809, durante il c.d. decennio francese fu concesso in enfiteusi dal governo di Murat al moranese Giuseppe Aronna, colonnello dell’esercito francese; il cenobio venne quindi riaperto al culto solo dopo la restaurazione borbonica il 16 settembre 1855 su sollecitazione dei cittadini e per espresso interessamento del re Ferdinando II durante la sua visita per le Due Sicilie del 1852, destinando ai lavori di restauro e rimaneggiamento la somma di mille ducati napoletani. A seguito di una seconda soppressione attuata dal nuovo governo unitario, esso venne nuovamente abbandonato dal 7 luglio 1866, quindi definitivamente riaperto ai religiosi dal 6 giugno 1877 sino ai giorni nostri.
La chiesa, dedicata a santa Maria degli Angeli, presenta una navata con cappelle sul fianco destro; queste sono decorate da ricchi altari lignei intarsiati alla cappuccina e risalenti al secolo XVIII, da un crocefisso monumentale in ceramica del ‘600, dalla statua della Vergine dei sette dolori di Giacomo Colombo (1704), dalle tele e pregevoli statue coeve. L’altare maggiore è sovrastato da una tela di gusto tardo-manierista dipinta da Ippolito Borghese e raffigurante S. Francesco d’Assisi, la Vergine in trono ed alcuni santi.
Monastero di Colloreto
Sorge a qualche chilometro dal centro abitato, immerso nella boscaglia su di un altopiano che sovrasta la campagna circostante. Oggi le strutture sono dirute, ma nei secoli scorsi il monastero godette di grande prestigio e rinomanza, soprattutto a seguito delle munifiche elargizioni tributate dai fedeli e dalla nobiltà locale, fra i quali ricordiamo la principessa Erina Kastriota-Skanderbeg, moglie del feudatario Pietrantonio Sanseverino.
Il monastero di Colloreto, (la cui etimologia appare incerta e sembra derivi da Colle Loreto in onore della Vergine di Loreto, o da colorìto, termine che ne designerebbe la ridente e pacifica posizione), fu fondato dal Beato Frate Agostiniano Bernardo da Rogliano nel 1546. Scelto il luogo, iniziò la sua esperienza religiosa in qualità di eremita; successivamente, gli fecero seguito altri uomini pii che costruirono il monastero, grazie alla beneficenza di numerosi oblatori. L’edificio, così come è ancora visibile, appare fortificato con un torrione, e fino ai primi dell’Ottocento anche i suoi interni dovevano apparire sontuosi e ricchi di opere artistiche, ora disseminate nelle chiese cittadine.
Il monastero divenne molto potente e quindi subì numerosi attacchi alla sua sopravvivenza, soprattutto a causa delle ingenti proprietà fondiarie che andò cumulando nel corso degli anni. Una prima soppressione avvenne nel 1751 per volere di Carlo III di Borbone che doveva sovvenzionare il Real Albergo dei Poveri in Napoli.
La soppressione definitiva avvenne nel 1809 con l’avvento francese.
Oggi è divenuto una meta simbolica di escursioni sulle falde del Pollino.
Il Castello Normanno-Svevo
Appare in ruderi sulla sommità dell’abitato in posizione strategica da dominare tutta la valle dell’antico Sybaris. Le sue origini risalgono all’epoca romana quando vi fu eretto un fortilizio, o probabilmente un torrione di avvistamento, il cui basamento in opus incertum fece da fondamento per i rimaneggiamenti d’epoca normanno-sveva e successivi.
In epoca medievale, la sua posizione dominante attirò l’attenzione della milizia sveva; fu quindi sede feudale a cominciare da Apollonio Morano, primo feudatario di cui si abbia notizia. Teatro di numerosi episodi d’arme, fra i tanti si ricorda, durante la fase della Guerra del Vespro, l’incursione dei mercenari Almogavari che, assoldati dagli Aragonesi, conquistarono Morano difensivamente impreparata e ne espugnarono il castello facendo prigioniera Benvenuta, detta la Signora di Morano, moglie del feudatario Tancredi Fasanella. Questa, nel seguente anno 1286, essendo Morano con Castrovillari e Taranto passata alla fedeltà di Carlo d’Angiò, da prigioniera divenne carceriera di Manfredi di Chiaromonte, suo conguinto di parte aragonese. Intorno a questo periodo è probabile che il castello, dalle sue forme più rudimentali venne elevato ed ampliato.
Assai significativo però è il rifacimento dell’edificio nel primo quarantennio del Cinquecento (fra il 1514 e il 1545) per volere del feudatario Pietrantonio Sanseverino che, nel compiere i lavori volle ispirarsi al modello del Maschio Angioino di Napoli, richiamando per questa fabbrica le più abili maestranze. Il Castello fu dunque la residenza del feudatario a Morano in maniera più o meno continua fino ai princìpi del ‘700 insieme al Palazzo dei Principi che sorge all’ingresso del borgo accanto alla porta sita sull’accesso dell’antica via delle Calabrie.
Nel 1733 la struttura venne gravemente compromessa per ragioni non del tutto chiare, quindi il maniero fu bombardato dall’esercito francese durante il periodo napoleonico nel 1806; la sua sorte fu segnata inoltre da sequenziali spoliazioni, che durante il feudo della famiglia Spinelli di Scalea (seconda metà del XV secolo – XIX secolo) permisero l’asportazione di elementi murari e materiali lignei della struttura, condannando l’edificio alla sua progressiva decadenza fino alle recenti ristrutturazioni degli anni 2000 che hanno permesso il recupero di alcuni locali, dei torrioni frontali, delle dirute mura perimetrali e della spianata retrostante.